Dante Alighieri

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Dante Alighieri.

Dante Alighieri, nato a Firenze nel 1265 e morto a Ravenna nel 1321, fu il massimo poeta italiano, e forse il più grande di sempre a livello mondiale, accanto a Shakespeare e a Goethe. A fare di lui un colosso della letteratura universale, pietra di paragone e cardine canonico, sono l'universalità del suo messaggio (pur radicato profondamente nel contesto di un'Europa intesa come Christianitas) e la potenza del suo stile, che ne fa il vero e proprio padre della lingua italiana, se è vero che la maggior parte delle strutture espressive del nostro idioma si trova attestata per la prima volta nelle sue pagine.

Originario di una famiglia nobile ma in declino, il Poeta disprezzò "le genti nove e i sùbiti guadagni", ossia l'avidità di denaro e le rapide, e non sempre limpide, fortune della nascente borghesia imprenditoriale; i valori a cui fece sempre riferimento, lamentandone il tramonto, furono quelli di un'Europa dominata dall'autorità, duplice ma concorde, e reciprocamente autonoma, del Papato e dell'Impero (come teorizzato nel trattato politico De monarchia) e di un ordine cavalleresco ancorato a saldi princìpi etici e religiosi.

Egli militò nella Pars Alborum, ovvero fra i Guelfi Bianchi, che accoglievano nelle proprie fila anche ex Ghibellini, e che dunque si proponevano di difendere l'autonomia del Comune di Firenze (di cui Dante fu Priore nell'anno 1300) da ogni ingerenza pontificia. Proprio questa posizione costò a Dante l'esilio, favorito dai maneggi di Bonifacio VIII. Dante, exul immeritus, Florentinus natione, non moribus, non tornò mai a Firenze, rifiutando l'umiliante compromesso propostogli (ossia chiedere pubblicamente perdono per il crimine di peculato che non aveva commesso, ma sotto il cui pretesto era stato esiliato).

Benché sposato con Gemma Donati, Dante amò sempre (facendone la sua spirituale e idealizzata Musa ispiratrice, anzi un vero e proprio tramite incarnato per avvicinarsi a Dio) Beatrice, figlia di Folco Portinari. La trasfigurazione simbolica e mistica di questo impossibile amore (pur circostanziato nei suoi tempi, nelle sue situazioni, nei suoi fugaci incontri fatti di sguardi, di saluti e di silenzi, nella sua spesso allucinata e perturbante dimensione onirica), già accennata nella Vita nuova, opera giovanile mista di prosa e versi, fra il romanzo e l'elegia, giungerà al pieno compimento nel Paradiso, terza e ultima cantica del capolavoro dantesco, la Comedìa. Questa finale apoteosi della donna amata è, del resto, già preannunziata a conclusione della Vita nuova. In quest'ultima opera, la tradizione della lirica amorosa medievale, basata sull'idealizzazione e la spiritualizzazione della donna, irraggiungibile oggetto di lode, consegue la sua sintesi e il suo esito più maturo.

Proprio la dolorosa condizione di esule indusse Dante a "farsi parte per se stesso", ad affermare la sua titanica individualità in armonia con valori perenni ed eterni, che trascendevano qualsiasi patria determinata ed angusta. "Nonne ego dulcissimas veritates ubique potero contemplari?" Come Cicerone e come Seneca, egli volge infine il suo sguardo intellettuale alle quiete purezze siderali, di là da ogni angustia terrena; e in questo universalismo cristiano (che non gli impedì di condannare la corruzione della Chiesa, rea di "puttaneggiar fra i regi", ossia di scendere ad interessati compromessi con il potere terreno) risiede larga parte della sua grandezza.

Nel De vulgari eloquentia, trattato latino, è teorizzata l'ideale e perfetta lingua volgare, che dev'essere "illustre", "cardinale", "aulica" e "curiale", ossia un luminoso, puro e solenne punto di riferimento.

Tanto nel Convivio (incompiuto trattato di carattere filosofico ed erudito), quanto nell'Epistola a Cangrande, che accompagna ed illustra il Paradiso, Dante delinea, in accordo con le poetiche mediolatine, la teoria del sensus polysemos, ossia della compresenza, in uno stesso testo, sul modello biblico, di quattro livelli di senso: letterale, allegorico, morale, anagogico. Al di là del senso letterale, vi sono sensi ulteriori, che vanno dalla rappresentazione simbolica all'insegnamento morale allo slancio mistico, che culminerà, alla fine del Paradiso, nella luminosissima ed inesprimibile visione del Divino, in cui sono racchiuse, in essenza, tutte le entità sostanziali dell'intero universo.

"Subiectum est homo": l'argomento della Comedìa è l'uomo, inteso come imago Dei, come creatura celeste che deve recuperare la sua dignità liberandosi dalle scorie del peccato, tramite un cammino che dall'abisso della dannazione eterna perviene, attraverso il fuoco purificatore, alchemico del pentimento, al luminoso silenzio della visio Dei.

Al poema sacro "ha posto mano e cielo e terra": la sfera fisica e quella metafisica, le passioni umane e l'eterna imperturbabilità delle verità rivelate e delle riflessioni teologiche, il ricordo dell'amore umano e la contemplazione adorante di quello divino, si fondono nel perfetto e purissimo cristallo del Poema, il cui tragitto conduce "dall'umano al divino, all'eterno dal tempo".

In Dante, dirà Thomas Carlyle, "parla il silenzio di dieci secoli muti". Alla tradizione classica, incarnata da un Virgilio cristianemente reinterpretato, si affianca e si fonde quella medievale (latina, di ascendenza evangelica, ma anche islamica), in cui è già presente il motivo del viaggio celeste e della visione divina.